Per un istante si fermò a sbirciare in quella grande scatola che
custodiva gelosamente e tirò fuori un altro ricordo che lo aveva visto
protagonista in una delle tante serate trasgressive che pure si era
concesso e goduto. D’accordo con il vate D’Annunzio che l’aveva
eliminata dalla lista di proscrizione, la lussuria non era un peccato
almeno per come la viveva lui che pure era cattolico praticante. Non le
dava un’accezione negativa perché non ne comandava le azioni e non ne
gestiva l’anima. Non si riteneva in balia delle pulsioni incontrollate
che adorava coccolare convinto com’era che reprimerle poteva essere
peggio che sfogarle. Amava certamente sperimentare, ma fino a quel
momento aveva dimostrato di conoscere il limite oltre il quale non
sarebbe mai andato. Per la continua ricerca di nuovi orizzonti il dottor
Faust forse gli somigliava un pochino e come lui era sicuro di non
correre il rischio di perdere l’anima.
Era certo di non smarrire se stesso perché ogni percorso che
intraprendeva aveva i suoi tempi e soprattutto ne conosceva e rispettava
il giusto e necessario equilibrio. Così come era sicuro di non essere
destinato a varcare la soglia del secondo cerchio dell’Inferno dantesco
perché riteneva di non appartenere alla schiera de “i peccator carnali
che la ragion sommettono al talento”. Curioso com’era, avrebbe fatto
volentieri compagnia al Sommo Poeta pur di incrociare gli sguardi di
Francesca da Polenta, Semiramide, Didone, Cleopatra o Elena di Troia.
Perché conoscere delle belle donne era per lui uno sforzo che si poteva
quantomeno tentare o un pericolo che si poteva correre. Anche se,
stavolta, la paura di morire lo stava mettendo a dura prova.
(Gioco mortale – Capitolo 7 – La lussuria)
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