mercoledì 28 settembre 2016

Gioco mortale, lussuria, Dante e D’Annunzio

Per un istante si fermò a sbirciare in quella grande scatola che custodiva gelosamente e tirò fuori un altro ricordo che lo aveva visto protagonista in una delle tante serate trasgressive che pure si era concesso e goduto. D’accordo con il vate D’Annunzio che l’aveva eliminata dalla lista di proscrizione, la lussuria non era un peccato almeno per come la viveva lui che pure era cattolico praticante. Non le dava un’accezione negativa perché non ne comandava le azioni e non ne gestiva l’anima. Non si riteneva in balia delle pulsioni incontrollate che adorava coccolare convinto com’era che reprimerle poteva essere peggio che sfogarle. Amava certamente sperimentare, ma fino a quel momento aveva dimostrato di conoscere il limite oltre il quale non sarebbe mai andato. Per la continua ricerca di nuovi orizzonti il dottor Faust forse gli somigliava un pochino e come lui era sicuro di non correre il rischio di perdere l’anima.
Era certo di non smarrire se stesso perché ogni percorso che intraprendeva aveva i suoi tempi e soprattutto ne conosceva e rispettava il giusto e necessario equilibrio. Così come era sicuro di non essere destinato a varcare la soglia del secondo cerchio dell’Inferno dantesco perché riteneva di non appartenere alla schiera de “i peccator carnali che la ragion sommettono al talento”. Curioso com’era, avrebbe fatto volentieri compagnia al Sommo Poeta pur di incrociare gli sguardi di Francesca da Polenta, Semiramide, Didone, Cleopatra o Elena di Troia. Perché conoscere delle belle donne era per lui uno sforzo che si poteva quantomeno tentare o un pericolo che si poteva correre. Anche se, stavolta, la paura di morire lo stava mettendo a dura prova.
(Gioco mortale – Capitolo 7 – La lussuria)

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