Andò dritto verso la sua femminilità abbeverandosi a quella che gli
atzechi chiamavano la grotta dell’amore. Le fece sentire a lungo la
voglia che aveva di lei finché, ormai pronta, non la penetrò
insinuandosi tra le gambe ornate. Avrebbe potuto venire subito
riempiendola con il suo nettare e invece il gioco durò parecchio. Le
lingue cominciarono a cercarsi e a sfidarsi rincorrendosi in una sorta
di danza indemoniata, vogliose di gustarsi il sapore che già sapevano
avrebbe inebriato le menti. L’uno abbandonato nella morsa dell’altra per
dare corpo all’idea di pos-sesso che non avrebbe mai limitato
la libertà dell’altro. Contribuiva il desiderio ad alimentare quelle
catene immaginarie che li stava legando in un sentimento che rendeva il
loro gioco sempre più esaltante e unico. I colpi erano forti, decisi e
ritmati come le risposte di lei che non amava stare impassibile mentre
il maschio le offriva in dono quello che le spettava di diritto. Si
immolava a quella divinità del sesso di cui era l’unico sacerdote con il
potere di attraversare le porte del tempio sacro. Nella stanza non
volteggiò neppure una parola, solo gemiti di piacere. Involontarie
espressioni di godimento sfuggite al silenzioso controllo imposto dalla
cerimonia sacrificale dei sensi e delle menti. Seguì l’esplosione che
liberò i corpi dal flagello della sublimazione.
(Gioco mortale – Capitolo 25 – Cibo e sesso)
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